[Ti va di introdurre Alos? Chi è e com’è nata nel tuo percorso?]
Alos è nata ormai 20 anni fa, dopo gli OvO e le Allun. Venti anni fa per me era “il progetto nuovo”. È nata da un’esigenza, perché mi era capitato di fare una data da sola a Palermo – a differenza di quello che facevo con OvO che è un duo e con Allun che era una formazione aperta – e, al rientro, nel viaggio da sola da Palermo a Milano, mi ero detta che sarebbe stato interessante continuare a sviluppare un’esperienza performativa solista.
Da lì anche il nome, Alos, il contrario di “sola”. Per anni tra l’altro c’è stato un punto di domanda davanti al nome “?Alos”, come a domandarmi “sola?”. Con il tempo è scomparso ma ha avuto un significato importante, è stato un quesito identitario su cosa significa “sola” - perché di fatto poi con Alos hanno sempre collaborato altre persone, ciascuna con la sua professionalità...
[E poi c’è il pubblico; c’è sempre una relazione con il pubblico.]
Esatto. Nelle mie performance il pubblico è sempre stato fondamentale, sin dai primi lavori, che erano una ricerca sui cinque sensi e sul ruolo della donna da un punto di vista sociale e culturale.
In una delle prime performance, per esempio, giravo con una cucina mobile e cucinavo cibo vegano – 20 anni fa non era così comune – che poi condividevo con il pubblico. Mi portavo sul palco spezie, verdure, tofu, pentole, piatti e bicchieri di cristallo, allestivo la mia azione che, anche a livello sonoro, aveva un suo impatto: usavo la voce, le elettroniche, il violino, i microfoni a contatto... Il pubblico ovviamente era parte integrante, partecipava con tutti i sensi perché lo spazio si riempiva anche degli odori del cibo, e poi si mangiava davvero. Oggi i tempi sono cambiati ma allora condividere cibo vegano aveva un altro significato: era una critica e anche un’altra possibilità.
In un’altra performance, invece, cucivo. Era una sorta di musical in cui da sola, con la macchina da cucire, cucivo un pupazzo di pezza.
Volevo portare l’attenzione sia sul lavoro femminile sia sullo sfruttamento legato all’immigrazione. Ai tempi vivevo a Milano, era il periodo in cui la città era piena di laboratori colmi di immigrate cinesi sfruttatissime che lavoravano per l’industria della moda (cosa che non è cambiata affatto): mi interessava l’esperienza di chi lascia il proprio paese per trovare una situazione migliore e poi si scontra con un lavoro sottopagato e la solitudine.
Il vero switch, il passaggio verso il rituale e un interesse verso la spiritualità – il sesto senso – è arrivato dopo “Era”, che per me era un progetto sonoro, un concerto, ma per molto tempo mi sono sentita dire di tutto: da “Bella la performance. Non è musica, vero?” a “Oh, com’è catartico!” fino a “Suoni chitarra e voce, quindi fai folk?”
Facevo doom, facevo metal. Per me era chiaro ma le persone – spesso uomini, molto spesso giornalisti – ci vedevano solo una serie di stereotipi che non avevano nulla a che fare con il mio lavoro. A un certo punto ho deciso che era un problema loro: erano limitati. Per me era chiaro quello che stavo facendo.
[Se sei una donna non puoi fare doom metal, sia mai!]
Se urli sei pazza e uscita da un manicomio… Ricordo che in una recensione per “Matrice”, album in cui dichiaravo di essere femminista, queer e anarchica – dichiarazioni che erano scritte nero su bianco nel comunicato stampa – qualcuno aveva scritto “Ci sta prendendo in giro, è pazza o cosa?”. Non puoi usare le parole in questo modo.
Facevo dischi già da 15 anni e non avevo bisogno di recensioni. Da lì in avanti ho iniziato a scegliere altre strade, anche più complicate se consideri anche solo la ricerca di spazi non convenzionali, ibridi, ma più adatti ad accogliere il mio lavoro: io non sono solo una musicista e adesso non sento neanche di affermare che faccio “performance”, faccio “riti”.
[Che cos’è per te il rito oggi?]
Se consideriamo il nostro quotidiano, esistono piccoli riti personali che sono importanti, perché ci permettono di focalizzarci e prenderci cura di noi stessi. Poi ci sono i riti collettivi, quelli che mi interessano, in cui sei tu con le altre persone in una dimensione altra, sospesa, nella quale avviene uno scambio - una circolarità di energie che dall’esterno si muovono verso l’interno e viceversa. Nell’esperienza contemporanea, anche andare a ballare o a un concerto può essere un rito collettivo.
Parlare di riti oggi è complesso ed è importante considerare il rito da un punto di vista storico e antropologico per non cadere nell’appropriazione culturale. Nei miei lavori ogni scelta è misurata affinché il rituale abbia una sua identità, nel rispetto del passato e delle altre culture. Un rito contemporaneo nel quale mi apro a una dimensione spaziale e temporale.
Credo fermamente nel fatto che tutto sia connesso, permeabile e attraversabile, a livello spaziale, temporale e anche verso una dimensione spirituale. E parlando con persone esperte di spiritualità mi sono spesso interrogata sul fatto che qualcuno di noi possa avere la capacità di fare da canale verso altre dimensioni invisibili.
[Ti è mai capitato?]
Condivido l’esperienza che ho vissuto… Ero in Liguria con “The Chaos Awakening”, in un piccolo festival immerso nella natura - oltretutto sotto Triora, che è un posto non molto conosciuto ma con una storia incredibile: un luogo non lontano da Sanremo dove in passato, nel XVI secondo, alcune donne vennero processate per stregoneria, accusate di aver causato una carestia. In quell’occasione per la prima volta ho sentito chiaramente che ero connessa con quello che stavo facendo, al punto da accorgermi che stavo andando in trance.
Il giorno dopo raggiungo l’organizzatore che era con la sua famiglia, la mamma e la zia gli davano una mano e, per caso, la sera prima c’era anche la nonna, una signora anziana che ovviamente non era interessata alla mia musica e non la conosceva, ma era una donna molto sensibile, con un vissuto doloroso legato a quel luogo… La incontro e mi dice che la sera prima, mentre suonavo, attorno a me aveva visto molte persone tra cui il figlio morto. Al momento l’avevo presa con leggerezza, ma di lì a poco ho dovuto affrontare due gravi problemi di salute - un tumore al seno e un’encefalite che ha messo a rischio la mia vita. “Calma”, mi dico.
Da sempre, il suono per me è uno stimolo alla connessione, lo è per Alos come lo è con gli OvO. La musica, un certo tipo di musica, ha la capacità di toccare delle corde, di aprire i canali. Nel rituale questo lo dichiaro, può accadere. Per questo mi occupo anche dello spazio in cui si svolge, lo “pulisco” da energie che potrebbero interferire e invito il pubblico a vivere il rito con una determinata propensione perché l’idea, lo scopo, è che le persone che partecipano si colleghino tra loro con un filo invisibile.
[Il titolo “Embrace The Darkness” mi piace molto e mi ricorda come tutti abbiamo una zona d’ombra che tendiamo a tenere lontana da noi, perché così ci hanno insegnato a fare, quando invece accoglierla, passarci del tempo e farci due chiacchiere ci aiuterebbe meglio a capire qual è il nostro scopo. Magari il tuo è proprio quello di connettere… Dopo tutto cos'è la performance? Un’esperienza collettiva che funziona se genera un cambiamento, seppur minimo, nelle persone che partecipano.
Parlando di connessione, in “Embrace The Darkness” c’è anche un altro livello, quello con la natura. Che ruolo ha?]
La natura è un gigantesco amplificatore, e anche lei parla. In “Embrace The Darkness” provo a dare voce a quella natura che a Stromboli ho vissuto, che ho assorbito e che ho trasformato a livello creativo, attraverso la voce e il suono. Entrare in contatto con la natura significa connettersi anche con la nostra parte primordiale, animalesca.
Noi conviviamo con la natura ma di solito non è una convivenza armonica, cerchiamo sempre di dominarla, sfruttarla, ma la natura è imprevedibile e selvaggia, non la puoi addomesticare. Ero arrivata a Stromboli, dove è nato “Embrace The Darkness” subito dopo un enorme incendio che aveva arso una parte dell’isola, mettendo la natura in sofferenza e traumatizzando gli abitanti. Un incendio causato dall’uomo durante le riprese di una serie televisiva che avrebbe invece dovuto valorizzare il territorio... Ovunque c’era odore di bruciato, denso, persistente. Se natura e uomo vivono in armonia e rispetto (come per esempio nella parte dell’isola in cui si trovano gli insediamenti più antichi, che non avevano subito danni), si crea un equilibrio, diversamente si crea distruzione.