Ph. Lorenzo Esposito
Diana Lola Posani è una sound artist, performer vocale e facilitatrice di Deep Listening certificata dalla Deep Listening Foundation. Lavora sullo spazio comune tra suono e immaginario poetico, attraverso opere interdisciplinari e poesie sonore. Da anni porta avanti anche un lavoro di divulgazione sul significato dell’ascolto.
A Performatorio ha scelto di portare “Quando mi vidi non c’ero”, una solo performance che, prendendo in prestito il titolo di un’opera di Vincenzo Agnetti, indaga un conflitto con l’identità, che appare solo entrando in contatto con la sua assenza.
In una conversazione, abbiamo parlato della sua performance, del processo creativo e dei temi che esplora.
[Partiamo dalla performance che porterai al Performatorio, “Quando mi vidi non c’ero”: com’è nato questo lavoro?]
Il lavoro è nato da un’intuizione su delle texture sonore. Avevo notato come due suoni con una carica energetica completamente opposta, il respiro e l’urlo soffocato, in realtà avessero un’apparenza sonora molto simile. Sono partita da una fascinazione per le consistenze di questi due suoni, come potrebbe esserlo l’interesse di uno scultore per un materiale. Da un lato c’è la componente atmosferica del suono – simile a un drone – molto uniforme, dall’altro quella drammaturgico-narrativa, che invece subisce grandi variazioni: un distacco per me molto interessante.
[Quindi si tratta di un interesse che parte dall’ascolto?]
In questo caso sì. Forse anche perché dopo “Scream As If Your Organs Were Made of Glass” – solo in cui lavoravo su una vocalità estesa ed estrema, un suono che avevo sentito e che per me aveva un peso particolare – mi interessava ripartire da zero e dire: ok, qual è la mia prospettiva su suoni semplici?
Il nuovo lavoro, quindi, non si concentra sulla scoperta di un suono, ma di una nuova prospettiva nell’ascoltare. Mi sono chiesta quale fosse la mia prospettiva su un respiro o un urlo muto, suoni che conosco perché li ho già ascoltati - sono nelle mie orecchie.
[Mi hanno agganciata due cose che hai detto: hai parlato di peso e di suoni che sono già nelle orecchie. Mi domando che peso ha questo lavoro per te, quindi, come ti influenza?]
Per me ha una grande influenza, come tutte le mie azioni. Quando costruisco qualcosa, la mia bussola ha a che fare con la cura, o meglio con l’auto-cura. Un aspetto che spero possa estendersi anche al pubblico, ma parte come una ricerca personale, che risponde in modo intuitivo alla necessità di un preciso momento. A livello emotivo, accedere alla parte di me a cui rivolgo la cura è pesante, perché richiede una pratica costante anche nell’andare verso quelle zone d’ombra che nella quotidianità rimangono nascoste. È come dare voce a quelle parti di me che non possono parlare, alle quali, a livello cosciente, non riesco ad accedere. Il suono – non la parola – è una finestra, mi offre la possibilità di guardare attraverso e vedere cosa c’è nell’ombra.
[È interessante come l’arte spesso diventi una pratica di cura, di superamento o riscrittura di situazioni traumatiche, oppure di sopravvivenza.
Prima hai parlato anche di suoni che sono già nelle tue orecchie, che conosci: dimmi di più. Intendi che possiamo esprimere solo i suoni che abbiamo sentito?]
La voce utilizza solo le frequenze che possiamo sentire. Ciò significa che, per via del circuito audio-fonatorio, non riusciamo a produrre con la laringe qualcosa che non abbiamo mai ascoltato. Al massimo ci possiamo girare attorno, ma è un discorso complesso, come il legame tra il pensare e il parlare. Ci sono lingue che utilizzano parole specifiche per esprimere determinati concetti: ampliare il vocabolario significa anche ampliare la quantità di concetti. Se la parola adatta a esprimere un concetto non c’è, devi fare un giro attorno alla lingua per trovare il modo di comunicarlo. Qualcosa di simile, secondo me, avviene anche con i suoni.
Posso decidere quindi di partire da suoni che conosco – perché li ho sentiti e li trovo interessanti – e spingermi più in là, oppure da suoni che fanno parte della mia quotidianità. Io mi sono già sentita respirare o urlare soffocando la mia voce; sono suoni che posso spogliare dall’umano.
Mi ispira, per esempio, la differenza tra Meredith Monk e un grandissimo performer vocale come può essere Demetrio Stratos. Lui aveva un atteggiamento quasi scientifico nel produrre diplofonie o altre possibilità, spingeva la sua voce oltre i confini. Meredith Monk invece si definisce compositrice prima che performer vocale: può realizzare un’opera basandosi solo sul suono di una risata. E la questione non sta nella qualità della risata, ma nel modo in cui la utilizza per raccontare una prospettiva diversa su quel suono – e questo è ciò che mi interessa. È il tipo di ricerca che più mi risuona e riguarda gli immaginari che i suoni possono creare.
[Che relazione hai con il pubblico nelle tue performance?]
Il pubblico è il 50% della performance. È quella parte di energia che la completa. Fino a quando non porto una performance davanti al pubblico, non sono consapevole di cosa sia. La presenza del pubblico è potentissima. Non ho una formazione prettamente da performer, e non sono una persona che ama stare sul palco o al centro dell’attenzione. Quando lo faccio è perché con quel tipo di lavoro mi sento totalmente trasformata. Non mi sento più io. Se lo fossi, sarebbe un grandissimo problema.
Nel momento della performance accade qualcosa di magico. Quando arriva il pubblico è come se tutto si mescolasse per contribuire a questa trasformazione. È come se mi stessero aiutando. Ricordo, per esempio, che in “Scream As If Your Organs Were Made of Glass” iniziavo distesa a terra e, mentre arrivavano le persone, mi accorgevo che lo spazio si riempiva del silenzio necessario a entrare nello stato in uno stato di coscienza alterato. E da lì proveniva il mio suono.
[Oltre a Pauline Oliveros, quali sono le autrici e gli autori che hanno influenzato il tuo percorso?]
Pauline ormai è un angelo custode, oserei dire. Ma la prima persona che ha spalancato le porte di quello che è il mio processo è stata sicuramente Claudia Castellucci, che oltre a essere un’artista fenomenale è anche una bravissima insegnante, ed è andata a toccare proprio delle questioni grammaticali sul significato della rappresentazione che tutt’ora mi porto dietro.
Poi, di riferimenti ce ne sono tantissimi. In questo momento mi sto nutrendo molto di musica contemporanea, per esempio Giorgio Netti. Altri riferimenti arrivano dal mondo dell’arte, come la scultrice Christiane Löhr, ma in realtà le persone che più mi hanno nutrita sono state le mie colleghe. Come Clara Levy, violinista che ha scritto un album meraviglioso basato, tra l’altro, su delle score di Pauline e dei frammenti di Ildegarda di Bingen. Oppure Inês Água, sound artist che arriva da un percorso come scultrice. E Janneke van der Putten, performer vocale e cara amica, che ha lavorato tantissimo con il canto Dhrupad indiano. Tutte donne, colleghe e coetanee che hanno arricchito il mio percorso.
[Hai citato più volte la scultura. C’è qualche affinità tra la scultura e la tua pratica?]
Per certi versi credo che la scultura sia l’ambito artistico che sento più vicino, a volte anche più di quello puramente musicale.
Spesso baso le mie composizioni all’interno non tanto su rapporti di tipo musicale, nel senso tradizionale del termine, ma su azioni vocali che acquisiscono materialità e, in questo senso, nel tempo, è come se questo materiale cambiasse forma, influenzato dalle variazioni. Nella mia mente, la scultura è proprio la cosa che più somiglia al mio approccio.
Quando canto, non visualizzo i suoni come se fossero una partitura grafica, o men che meno una partitura tradizionale, ma come se sentissi interamente – con il sistema voce-corpo – delle qualità materiche. Può essere quella della sabbia leggera per un certo tipo di respiro, o il determinato peso e colore di un growl. È come se i suoni diventassero oggetti.
[Prima hai parlato di cura e auto-cura, ma ci sono anche delle tematiche intrinseche ricorrenti nel tuo lavoro?]
Sì, sicuramente c’è l’auto-cura e le tematiche da cui deriva, ma anche il distacco tra voce e corpo, che può essere reale o percepito. Il non riuscire ad abitare la propria voce.
“Quando mi vidi non c’ero” è la prima performance in cui espiro invece di inspirare, ma la quantità di suono è minima. La maggior parte del suono percepito infatti è aria – quasi la voce non c’è, e quando tenta di uscire è un urlo soffocato. Eppure io lavoro con la voce, ma nelle mie performance il rapporto con l’idea di dare spazio alla mia voce è molto conflittuale.
Un altro tema è legato alla possibilità di rappresentare ciò che abita l’umano con un altro linguaggio, quindi non tanto rappresentare l’umano in sé… Parlo molto di umano, certo, perché spesso attraverso stati dell’infanzia o questioni autobiografiche che poi non mi interessa dichiarare. Ma ci torno in modo impersonale, o meglio: è personale perché lo faccio con il mio corpo, impersonale perché non mi interessa reinterpretare la mia storia…
[Quando ritieni che un tuo lavoro sia finito?]
Ho una approccio molto istintivo, poco concettuale e molto pratico. Sento il bisogno di andare in una direzione, quindi provo a cantare per vedere se si crea quella bolla, quel distacco dal reale che mi permette di entrare nella zona d’ombra. È come provare una medicina per capire se è quella giusta. Poi, che sia quella giusta, lo capisco solo a posteriori.
Nelle performance compio delle scelte che porto avanti fino a quando ne capisco il senso. Funzionano finché esprimono qualcosa di me che è ancora incomprensibile; quando poi lo comprendo, allora vuol dire che quella non è più la medicina giusta per me, che ho bisogno di altro. Nella prospettiva dell’autocura significa che la parte d’ombra su cui stavo lavorando emerge, viene alla luce, ed è integrata - non ha più bisogno di essere raccontata.
[Prima, parlando di non riuscire ad abitare la propria voce, mi sono ricordata dell’effetto che mi fa ascoltare i miei vocali. Orribile. Non ci devo pensare. Tu invece, che rapporto hai con la tua voce?]
Fino a pochi anni fa avevo un pessimo rapporto con la mia voce, e non solo quando l’ascoltavo. Ora posso dire di aver reintegrato la mia voce spontanea, questo anche grazie a un lavoro profondo di funzionalità vocale - una disciplina che deriva dal metodo Lichtenberger.
Ci sono varie questioni culturali per cui noi attribuiamo dei significati alla qualità della voce. Per esempio, il pitch alto lo interpretiamo come qualcosa di negativo perché associato al femminile; a livello evoluzionistico, gli animali più grossi avevano suoni più profondi… varie questioni.
Ma più che altro è qualcosa che riguarda l’identità. La nostra voce contiene molte informazioni sulla nostra identità: tutte quelle sul nostro corpo interno, su come stanno i nostri organi, le mucose, e anche quelle sulle nostre esperienze di vita - perché la nostra voce cambia a seconda di quello che ascoltiamo. Lì dentro c’è di tutto, addirittura le persone neurodivergenti hanno delle cadenze diverse. Dentro la nostra voce c’è l’identikit di chi siamo.
[Mi collego a questa tematica identitaria per arrivare al Deep Listening. Prima abbiamo parlato dell’integrazione tra voce e corpo, che è una prospettiva individuale. Nel Deep Listening invece la prospettiva si fa collettiva, lavorando sull’ascolto dell’ambiente, esatto? Dimmi di più!]
Se la pratica della funzionalità vocale è centrata sul lavoro identitario ma riferito a sé, chiuso, il Deep Listening esplora il suono in modo politico, superando la prospettiva individuale. Ti permette di comprendere i confini della tua identità espandendoli.
Più esplori la porosità tra te e il circostante, più i confini si dissolvono e più, in realtà, realizzi in modo profondo cosa sei rispetto a ciò che ti circonda. Il Deep Listening ti porta verso un senso di dissoluzione e compenetrazione, una percezione profonda, non facilmente descrivibile, di chi sei tu all’interno di una rete.
Pauline descriveva il Deep Listening come una healing practice che non richiede un’alfabetizzazione e che può essere seguita da chiunque: una trasversalità che ha un grande valore. Se svolto in maniera profonda, può dare degli spunti interessanti anche a chi si occupa di musica, ma non solo – fa bene a chiunque.