[La tua ricerca è un’esplorazione della voce come veicolo di incontro e metamorfosi. Perché proprio la voce?]
Il mio lavoro è un’esplorazione della voce e del linguaggio, un interesse che per me deriva dal fatto che 15 anni fa ero cantante e musicista - suonavo anche la fisarmonica. Mi interessavano i canti popolari e ho studiato i canti yiddish dell’Europa centrale e quelli del Salento italiano – per alcuni mesi ho vissuto a Lecce. Per me non era possibile cantare senza apprendere il linguaggio o passare del tempo con la comunità a cui quei canti appartenevano - è un po’ come conoscerne la cultura.

Quindi, il canto è diventato un modo per incontrare, un modo di pensare la mia posizione e la mia legittimità. Posso considerare la mia pratica attuale come una sorta di estensione di quel periodo: usare la voce mi permette di incontrare e di interessarmi sempre al linguaggio, al modo di essere di una comunità – umana o non umana.


[Il canto ti permette quindi di diventare parte di una comunità? In un certo senso di “parlare la stessa lingua”?]

È interessante questo, ma io resto sempre una straniera, quindi questo aggiunge altre domande riguardo alla metamorfosi e alla nozione di ibridazione che per me è molto importante. Perché appunto, non sono nata in Salento, non sono ebrea e non sono un uccello, per esempio.

Ovviamente il canto e la musica sono strumenti per incontrare una comunità e creano un legame molto forte ma il mio lavoro è su questa “terza zona” che sta tra me e loro, tra me e te, è la porosità tra due entità; è questo che mi interessa e come l’incontro ti trasforma.

Diventi altro quando incontri veramente qualcuno. Che sia una persona, un animale, un ambiente o un’entità, c’è un’intensità di relazione che fa sì che tu cambi e su questo aspetto, con la mia voce, provo a esprimere quello che Deleuze chiamava “devenir”: non sai più se sei tu o se ti stai confondendo con l’altro.

Hybird, performance, 30 min, 2017 © Valérie Sonnier.

“La voce è un meraviglioso mezzo di metamorfosi; si pensi ai cacciatori che attirano le loro prede con la voce, a quella comunità di YouTuber che riproduce il suono dei motori delle auto da corsa, o ancora ai "joiks" (canti) sami che restituiscono la presenza del vento, della montagna, di determinati animali... In un solo gesto, senza maschere, la voce consente di diventare simbolicamente un altro, o meglio, molti altri: è un accesso al molteplice.”

[Da un bellissimo carteggio incrociato tra Bruno Latour, Nastassja Martin e Violaine Lochu]

[Siamo nell’ambito della filosofia, il concetto di “terza zona” mi ricorda anche il concetto di “confine di contatto” nella psicoterapia contemporanea. Noto che la tua ricerca tocca molti aspetti della filosofia e delle scienze psicologiche.]

Sì, è vero, per me sono un’ispirazione. Lavoro spesso con ricercatori e ricercatrici, per esempio ho lavorato con la filosofa delle scienze Vinciane Despret e con l’antropologa Nastassja Martin, e mi interessa la psicologia, soprattutto la psicanalisi - ho studiato Lacan.

[Quando parli di metamorfosi cosa intendi?]

Intendo il divenire qualcos’altro che per me è anche uno stato vicino alla trance o all’ipnosi, uno stato di coscienza alterata: è quello che vivo durante la performance; una condizione speciale che per me coincide con l’essere performer e che consiste nell’andare a cercare quella “terza zona” tra la voce dell’altro e la mia.

[C’è un lavoro particolare che fai su di te prima di una performance, affinché tu possa ricercare questa condizione?]

Mi sa che è sempre stato così. A un certo punto ho capito di non essere molto normale… Ah ah ah!
Ho sempre fatto improvvisazione ma ho capito che non era scontato quello che facevo solo quando ho cominciato a studiare e i miei professori mi hanno fatto notare che avevo questa presenza, come dire, intensa.

È qualcosa simile alla meditazione per me: essere lì, nel presente, e accogliere sia ciò che è dentro di me sia ciò che sta attorno a me. Per me è stato piuttosto il percorso inverso, perché essendo qualcosa che faccio da sempre, a un certo punto ho dovuto trovare le parole adatte per tradurlo, per esprimere alle altre persone come mi sento quando performo.

[“Babel Babel” mi ricorda il lavoro dello psicoanalista e psichiatra Daniel Stern sull’esperienza dei primi anni di vita del bambino, in cui i bisogni come la fame, la sete, il piacere, il fastidio emergono in maniera dirompente e vengono espressi attraverso la voce. Che ruolo hanno le tue emozioni in questa performance?]
“Babel Babel” è una performance che ho realizzato nel 2019. Per un anno ho frequentato alcuni asili e in uno di questi che si trova dove abito, a Seine-Saint-Denis vicino a Parigi, ho osservato il legame tra i bambini e il personale dell’asilo, e ho registrato il balbettio dei bambini.

In questa performance la mia ricerca è molto simile a quello che hai detto: nei primi mesi di vita il bambino ha solo l’emozione della sua voce per comunicare, quindi tutto è estremo. La tristezza è estrema, il pianto per la fame diventa infernale, tutto è un dolore o una gioia.

In “Babel Babel” non provo a imitare, perché non avrebbe senso - non sono una bambina - ma cerco quella voce infantile dentro di me, una metamorfosi in cui “imitare” significa piuttosto cercare il bimbo e accoglierlo. Ho ascoltato molti bambini e anche io lo sono stata; c’è un accesso nel tuo corpo che ti permette di connetterti a questa parte di te.

[Che ruolo ha Il pubblico nelle tue performance?]

Il pubblico ha sempre un ruolo importante, poi dipende sempre da come è impostata la performance. “Babel Babel” per esempio ha un’impostazione classica, il pubblico è attorno a me e mi piace che le persone mi siano molto vicine. In questo caso non avviene un’interazione fisica diretta ma, allo stesso tempo, non è mai accaduto che qualcuno restasse neutrale davanti a questa mia performance.

Spesso le persone provano disagio, accade che qualcuno rida o pianga, le persone si sentono toccate in una reazione da voce a corpo e da corpo a corpo.

Altre performance, invece, hanno un’impostazione diversa. Per esempio in “Echotopia”, che ho fatto a settembre del 2023 al Padiglione francese della Biennale di Venezia, per una settimana, il pubblico partecipava in maniera diretta. Le persone venivano  invitate a stendersi, a porsi in una condizione vicina alla meditazione e poi a descrivere ai performer uno spazio – un ambiente – con cui avevano avuto un legame forte. Il risultato era un canto “ecotopico”: una sorta di traduzione della relazione delle persone con il loro ambiente.

In altre occasioni lavoro in gruppo, con persone che non sono performer, per esempio anche con la performance collettiva “Babel Babel” ho trascorso del tempo con il personale dell’asilo, che ha partecipato agli workshop e in questo caso le persone stesse sono diventate performer.

[Nei tuoi lavori utilizzi diversi media, oltre alla performance.]
Diciamo che parto sempre da una sensazione, da un’intuizione, che mi arriva perché sono immersa in un contesto particolare e che poi prende forma. La performance è la parte centrale del lavoro, il nervo centrale del sistema, a volte c’è un lavoro grafico, una partitura grafica – che può essere un libro o dei tessuti, in “Echotopia” era sui vestiti dei performer – e poi c’è una parte sonora - a volte utilizzo delle installazioni immersive con le voci delle persone o la mia stessa voce. Tutto questo – video, performance, disegni, suoni – è sempre collegato.

[In che modo sei arrivato alla performance?]
Sono arrivato alla performance perché per anni - per 5 anni - ho gestito un locale insieme ad altri amici: si chiamava Btomic, organizzavamo live di artisti che si esibivano soprattutto in solo, molto particolari… Dalla scena berlinese alla scena americana sperimentale. Un locale che ha prodotto un sacco di roba di una cultura che sta sparendo, quella underground, e che io sostengo fino alla morte perché è quella in cui sono nato, quando ancora i centri sociali facevano questo tipo di controcultura. La mia storia è questa.

Tutto quello che accadeva al Btomic veniva documentato; una specie di archivio. Abbiamo cominciato a produrre foto, video, interviste… Faccio un giro lungo per farti capire che dopo tutto questo percorso, nel 2016, mi è venuta la voglia – un’esigenza che mi è stata trasmessa da tutti gli artisti che sono passati da lì in quegli anni – di salire sul palco. E l’unico modo per farlo, per me, era con la fotografia. Così ho proposto ai Kinkaleri di studiare una performance dove la fotografia potesse permettermi di entrare. E da lì ho cominciato.

Ora, come artista, la fotografia è soprattutto il mezzo che utilizzo nelle performance, nel mio lavoro in studio la uso meno, ma nella performance è basilare. Entro fotografo ed esco performer – anche se non mi sento “performer”.

[Possiamo dire che è un modo diverso di fare fotografia? L’hai portata in mezzo alle persone.]
Quello che più mi attraeva era il contatto con il pubblico, il fatto che il pubblico diventasse proprio la storia, la drammaturgia. Alla fine quello che accade, è un tentativo di performance: io non riesco a fare delle prove, cado – come diceva Trisha Brown “Anche cadere è danzare” – e succede qualcosa. Mi muovo e succede qualcosa. Però non lo controllo, è dettato da tutto quello che mi accade intorno. Posso dire che il pubblico diventa proprio la performance; io coinvolgo il pubblico ma è lui – loro – che diventa, anche nella stessa fotografia di documentazione, parte integrante della performance – fondamentale.

ph. JB 2023


[Che effetto ti fa il pubblico?]
La cosa assurda è che non riesco a pensarci… Quando facevo le prime performance, con le proiezioni in tempo reale, suonando il microfono sul corpo e campionando, manco guardavo il pubblico perché mi terrorizzava.
Adesso provo amore e odio: mi viene voglia di spingere a me le persone, di abbracciarle, ma anche di allontanarle. Sai, Io non vado più nei locali, non vado in mezzo al casino – non sopporto più la gente – però quando faccio una performance diventa un momento intimo con chi partecipa. Per questo non voglio farle nei club: voglio avere un pubblico che è lì per partecipare a un’azione fisica, non per ascoltare della musica. 


C’è la fotografia oltre all’azione, certo, ma è una fotografia diversa, è documentazione. La cosa che trovo interessante è che durante le performance mi “clono”: affido la macchina fotografica a un’altra persona; io comunico con la fotografia anche attraverso persone che mi fotografano e fanno il mio lavoro. Così io divento anche parte del pubblico… È interessante, perché un fotografo non abbandona mai la macchina, invece io scatto attraverso altre persone ma il lavoro è mio, lo scatto non appartiene a loro. 

Mi rendo conto che alla fine, la fotografia, la utilizzo solo durante le performance. Cerco di nascondermi sempre di più, come se non volessi far vedere l’immagine che produco ma riesco a mostrarla attraverso la restituzione editoriale della performance – il mio è anche un lavoro editoriale – con una ventina di foto, video e magari anche la registrazione dell’audio quando c’è. Anche da voi, per esempio, ho coinvolto Michele Lombardelli con cui sto lavorando, che introdurrà dei suoni o campionerà i miei; volevo impreziosire questa performance di “musica andalfabeta” con dei suoni - sono degli elementi che mi danno sicurezza.

[Mi piace che dici che i suoni ti danno sicurezza.Quanto è importante per te la musica?]
È importantissima. Ho amato la musica fin da ragazzino, avrei anche voluto suonare ma non ho mai avuto il coraggio di salire su un palco – fino a 47 anni. La musica per me è fondamentale ma non deve essere una gabbia… Mi spiego: quando vai a un concerto così come quando fai una performance, hai i tuoi riferimenti che ti influenzano. Nella performance ho eliminato tutti i miei riferimenti, perché voglio un suono “analfabeta”; un suono senza controllo – senza nessun riferimento. Che non significa “improvvisato”, è diverso: è un suono che nasce dall’errore.

Tutto il mio lavoro viene non dallo studio ma da un incidente. Proprio perché nel mio percorso ho capito che tutto quello che faccio è basato sull’imperfezione; ho perfezionato l’imperfezione. Ed è così nelle fotografie, nelle performance, nelle cornici… Che non vuol dire fare un lavoro fatto male apposta: per me questa imperfezione significa lasciarmi andare così come sono – essere me stesso. Ogni volta che vedevo qualcosa che mi colpiva mi lasciavo influenzare, provavo a essere quello che non sono e non funzionava. Adesso mi sento libero: mi baso su di me e sulla mia imperfezione, anche fisica (come cammino, come suono…) e la esalto al massimo. Devo solo stare lì, senza spaventarmi, sicuro di quello che non so fare – speriamo che non ci sia un dottore qua dentro, ecco… Ah ah ah!

[Perchè dici “di non spaventarmi”. C’è un aspetto che ti spaventa?]
No… A questo punto non c’è più niente che mi spaventa. Il pubblico può spaventarsi se si aspetta qualcosa. Io mi sono lasciato andare e ho lavorato su quello che sono veramente: una persona imperfetta in tutto quello che faccio, anche nella fotografia stessa – le mie foto non sono belle, sono coerenti.

[Cos’è che ti colpisce delle persone che fotografi durante le tue performance?]

L’attenzione, la cosa più bella delle foto delle performance è quando la gente ti guarda, ti oltrepassa. Uno sguardo che ti prende ed entra dentro di te. Questa cosa è bellissima. È “A me gli occhi”. Anche per questo non voglio che ci siano cellulari, creano una distrazione e diventa una documentazione, distolgono... Voglio l’attenzione dalle persone che stanno lavorando con me. Assorte, spaventate, concentrate su quello che sta succedendo.

[Cosa chiedi al pubblico con il tuo lavoro?]

Chiedo attenzione, senza aspettative. Chiedo che le persone siano loro stesse, ma non sempre succede e questa è l’imprevedibilità delle azioni. Anzi, io spero sempre che accada qualcosa di imprevedibile. Non sopporto le situazioni in cui il pubblico è passivo, seduto, non riuscirei mai… Mi piace che io e il pubblico siamo sullo stesso piano. La vera performance è la reazione nel pubblico, quello che poi vedo nelle foto: questa per me è l’azione perché le persone sono in una posizione che io ho creato.

[Come immagini il tuo lavoro in futuro?]
Il mio lavoro cambia in base a come sono io in quel momento. È un po’ come documentare la mia vita. 

[Non esiste una separazione tra te, come individuo, con le tue caratteristiche, e il tuo lavoro.]
No, sono me stesso, anzi, lo sono sempre di più. Non c’è Jacopo Benassi che fa le foto o che fa le performance; è un tutt’uno. Sono un’artista e una persona che ha esaltato la sua imperfezione. Non correggo i miei errori: io sono un grande errore, uno spettacolare errore.

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