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A cura di Invisible°Show
[Perché avete scelto il nome "Putan Club" e cosa significa oggi per voi?]
Era un nome provvisorio nato durante un viaggio notturno vicino a Namur, in Belgio, dopo un concerto. Abbiamo visto un cartello con scritto ButanGas e per gioco uscì "Putan Club". Doveva durare sei mesi, era volutamente provocatorio, un po' punk. Adesso forse ha un significato più serio, ricordando la resistenza delle prostitute vietnamite durante la guerra. È difficile da portare, spesso in Russia lo scambiano per "Putin Club" e inizialmente era irritante, ora invece ci diverte.
[David Lynch in un'intervista disse “se devo mandare un messaggio vado in posta”. Il vostro progetto ha un messaggio?]
Non siamo nati per trasmettere messaggi espliciti, però inevitabilmente il modo in cui viviamo e lavoriamo diventa politico. Nei testi siamo lapidari, evitiamo retoriche facili. Viaggiando tanto vediamo cose che ci toccano profondamente, come i massacri degli Uiguri o la situazione tesa in Europa. Il messaggio più forte, però, è nel modo in cui organizziamo la nostra vita e il nostro lavoro: autonomi, indipendenti, liberi da agenzie, promozioni e obblighi del mercato musicale. Riusciamo a viverne, paghiamo gli affitti e le bollette con quello che facciamo, e questo è il vero successo per noi. Non è autodistruzione, ma una continua scoperta e rinascita personale.
[Avete fatto migliaia di concerti e inciso pochissimi album: perché questa scelta?]
La dimensione vera del Putan Club è il concerto, non il disco. Nessuna registrazione può catturare davvero la follia, l'intensità e l'energia del live. Pochi dischi e spesso dal vivo per noi significano soprattutto un segnale di continuo cambiamento e una presa di distanza dalla staticità del mercato musicale, che ripete sempre le stesse cose. Ogni concerto è unico, irripetibile, e questa unicità ci interessa più di qualunque disco. Recentemente è uscito un nuovo album, registrato dal vivo, che segna per noi simbolicamente la fine di una fase e anticipa nuove direzioni musicali.
[Come vivete il continuo viaggiare e suonare in luoghi remoti, spesso poco conosciuti?]
Viaggiare continuamente è per noi essenziale e rigenerante, anche se può sembrare una forma di fuga dalla routine e da una vita più stabile. Non è autodistruzione, al contrario, rappresenta una crescita personale continua, una possibilità di incontrare nuove persone, fare esperienze diverse e imparare costantemente. Registrare e documentare questi viaggi è diventato fondamentale: raccogliamo centinaia di ore di materiale, filmati e registrazioni audio di rituali musicali locali, che lasciamo gratuitamente agli archivi culturali o ai ministeri dei paesi che visitiamo. Suonare in luoghi remoti ci permette di scoprire e interagire con realtà spesso invisibili, offrendo una voce a comunità marginalizzate e creando reti di relazioni autentiche e significative. Al tempo stesso, amiamo anche il ritorno ai luoghi familiari, come la nostra base in Francia o il Salento, in Puglia. Questo ritorno rappresenta un momento importante quanto la partenza stessa.
[Quali sono le vostre influenze? Vi riconoscete in qualche modo come artisti italiani o francesi?]
Non abbiamo un'appartenenza musicale precisa. L'etnomusicologia e i nostri continui viaggi ci portano a mischiare tutto: jazz, death metal, punk hardcore, classica contemporanea. Non ci poniamo limiti di genere. Rivendichiamo veramente di essere senza chiesa musicale. Quello che ci colpisce veramente è l'autenticità, il "duende" dei gitani. Cerchiamo quella dimensione vera, senza chiederci da dove venga.
[Nei concerti rifiutate il palco tradizionale: che senso ha per voi questa scelta?]
Il palco rappresenta per noi una distanza eccessiva, ormai inutile, una sacralità che vogliamo evitare. Preferiamo immergerci direttamente nel pubblico per creare una vera esperienza collettiva, un rito fisico. Questo contatto diretto permette di superare ogni barriera tra artista e pubblico. Per noi il concerto è questo: una dimensione di totale autenticità e selvaggeria.